Paola Zukar, deeper than rap
Paola Zukar è stata tra gli spekaer del Master in Marketing e Comunicazione per la Musica. In questa breve intervista ci spiega cosa è il rap per lei, il suo rapporto con gli artisti e il futuro del rap in Italia.
Che cos’è il rap?
Il rap è una decodifica della realtà in senso artistico. È molto più di un genere musicale perché tocca delle corde speciali, profonde. Si dice “deeper than rap” perché ci sono alcune tracce, alcuni artisti, alcuni temi che vanno al di là del rap.
Il rap può anche essere una musica di intrattenimento, ma credo che, al contrario di altri generi, sia più profondo: il trattare temi molto scomodi e abrasivi è qualcosa che appartiene solo al rap.
In un Paese come il nostro che molto spesso ha una doppia morale, una pubblica e una privata, che impatto ha avuto – e ha oggi – un genere musicale schietto e senza filtri come il rap?
Su questo tema ci ho scritto un libro (“Rap. Una storia italiana” n.d.r.). Nel libro parto proprio da questa tesi: l’Italia è un paese dalla doppia faccia.
Penso che il rap abbia convinto perché tanti si sono resi conto che ascoltare un racconto più sincero, più diretto e scomodo incentiva una serie di considerazioni e di riflessioni che altrimenti non faresti.
Nel rap spesso si ricorre al turpiloquio e a una violenza verbale che, pur facendo parte della vita di ognuno di noi, sono mal tollerati sui media. Ti è mai capitato di dover censurare uno dei tuoi artisti?
No, non mi è mai capitato. Io non intervengo in studio, ma dopo. Anzi, cerco di preservare il progetto così come mi viene consegnato, perché possa rimanere il più autentico possibile.
I media sono stati i primi puritani: non accettavano le parolacce. Si è arrivati addirittura a sostenere che se ci sono le parolacce non è una canzone…ma è falso: se migliaia di persone la cantano, è una canzone.
Perché il mondo del rap è popolato prevalentemente da uomini?
Perché è un genere aggressivo e competitivo e aggressività e competitività non sono esattamente le prime caratteristiche che ti vengono in mente quando pensi a una donna.
Ci sono donne nel rap, ma credo che fatichino a trovare la loro identità.
Al momento vedi in Italia rapper femminili promettenti che potranno dare filo da torcere ai big del rap maschile?
In Italia ci vorrà ancora del tempo. All’estero ci sono già. Le mie preferite sono Missy Elliott, e Lauryn Hill.
In Italia ci sono delle ragazze interessanti, ma devono ancora trovare un’identità sufficientemente forte da permettere loro di superare tutte le difficoltà che prima o poi arrivano lavorando.
Come sei diventata Paola Zukar?
Imparando da altri. Ho avuto la fortuna di fare un viaggio negli Stati Uniti nel 1987, dove ho capito come funzionava e come era nato il rap e quale fosse il messaggio.
Ho avuto la fortuna di incontrare sulla mia strada persone che mi hanno permesso di andare avanti: Claudio Brignole – il fondatore di Aelle, la prima fanzine italiana di rap – Fabri Fibra, Marracash, Clementino, Tommy Kuti.
E poi contano le esperienze, quelle che ti portano a fare le cose, a sbagliare, a fare errori e poi a ripartire.
Hai mai rappato?
Sì, ho provato. Non sono mai stata abile a rappare, ma ero brava a capire: riuscivo a comprendere che cosa avrebbe potuto funzionare. Quando ho sentito Mr. Simpatia di Fabri Fibra ho pensato subito: “questo non può che essere un fenomeno mainstream nazionale”.
Che rapporto hai con gli artisti che segui: è solo professionale o vi frequentate anche in contesti non lavorativi?
Una buona relazione di management deve avere alla base la fiducia. Se manca questa, non è possibile andare d’accordo solo grazie alle competenze. La fiducia si basa su una visione comune.
Non ci frequentiamo più di tanto: io ho la mia famiglia, loro hanno amicizie e impegni. Però c’è un legame profondo, fatto di rispetto e di comprensione reciproca. Andiamo molto d’accordo.
Nel rap contano le metriche, le parole, il linguaggio. Al di là dei contenuti visual, i social network sono costituiti da interazioni basate su parole. Questo mi fa vedere una vicinanza fra rap e social media. Che rapporto c’è fra social e rap? Il rap viene influenzato dalla lingua che si parla sui social?
È vero fino a un certo punto. Il social del momento, Instagram, si è spostato completamente sull’immagine, determinando uno scollamento tra l’immagine stessa e il testo.
Instagram è diventato un veicolo promozionale enorme. Ci sono rapper molto giovani che si affermano, usando due social network: Youtube e Instagram.
Tu hai visto nascere il rap in Italia, in un certo senso ne sei la madrina. Immagino tu l’abbia visto cambiare molto. Cambierà ancora?
Sì, perché è legato alla realtà che racconta. Man mano che cambia la società, cambia anche il rap. Il rap funziona proprio per questo, perché è un’istantanea del momento storico che si vive.
I primi tentativi di alfabetizzazione del rap mi hanno molto colpita, perché, all’inizio, nessuno pensava che il rap potesse essere fatto in Italiano: il rap, così come la new wave, non è un genere autoctono, ma mutuato dall’estero, quindi alla base c’è proprio una questione di struttura, di forma, di lingua.