È morto David Lynch

David Lynch, nato il 20 gennaio 1946 a Missoula, Montana, è deceduto il 16 gennaio 2025 all’età di 78 anni. La notizia è stata confermata dalla sua famiglia tramite un comunicato ufficiale

Con la morte di David Lynch, il cinema perde una delle sue menti più enigmatiche e affascinanti. Non si può dire che Lynch fosse semplicemente un regista: era un creatore di mondi, un architetto delle emozioni che operava su un confine labile tra realtà e immaginazione. Come avrebbe potuto Lynch stesso raccontare la sua fine? Forse, con un’ombra di silenzio e un’inquadratura di un corridoio senza fine, dove il tempo sembra scivolare fuori controllo.

Lynch non si è mai limitato a girare film: ha sondato i confini dell’esistenza, portando i suoi spettatori in luoghi sconosciuti, talvolta inquietanti, talvolta strazianti nella loro bellezza. Nato nel 1946 a Missoula, Montana, Lynch era un uomo del Midwest, ma il suo immaginario apparteneva a un regno altrove, fatto di oscurità velate e improvvisi squarci di luce. Pittore prima di essere cineasta, Lynch ha trovato nel cinema la tela ideale per dare forma ai suoi sogni e incubi, come dimostrato dal suo primo lungometraggio, Eraserhead. Quest’opera, lontana dalle logiche commerciali, rappresentava un viaggio nell’alienazione umana, nella paura della responsabilità e nella frammentazione della realtà.

Per Lynch, il cinema era il mezzo attraverso cui rivelare ciò che si nasconde sotto la superficie: un mondo che sembra ordinato, ma che in realtà pulsa di caos e segreti. Questo tema, esplorato in modo potente in Blue Velvet, scardina l’idea della periferia americana come luogo sicuro e idilliaco. Jeffrey Beaumont, interpretato da Kyle MacLachlan, non è solo un ragazzo curioso: è il nostro avatar in un mondo dove la luce si mescola all’oscurità, dove i sorrisi sono spesso maschere. Lynch ci mostra che il male non è sempre distante, ma vive a pochi passi da noi, dietro porte chiuse che preferiamo ignorare.

Quando Lynch ha portato la sua visione in televisione con Twin Peaks, ha trasformato il medium. La serie non è solo un giallo che ruota attorno alla domanda “Chi ha ucciso Laura Palmer?”. È una discesa nell’inconscio collettivo, un’esplorazione di desideri repressi, segreti inconfessabili e traumi mai risolti. La cittadina di Twin Peaks sembra incastonata in un tempo sospeso, un luogo dove il banale si mescola al soprannaturale. La Loggia Nera, con i suoi pavimenti a zigzag e le sue tende rosse, non è solo un luogo fisico: è la metafora del nostro lato oscuro, il punto in cui le identità si sgretolano e la realtà si frantuma. Laura Palmer non è semplicemente una vittima: è il simbolo della purezza corrotta, dell’innocenza perduta che permea tutta l’opera lynchiana. E poi c’è l’agente Dale Cooper, il cavaliere moderno che cerca di portare ordine nel caos, ma che finisce intrappolato nei suoi stessi incubi. Lynch usa Twin Peaks per dimostrare che il male non è solo un’entità esterna, ma qualcosa di radicato dentro di noi, una forza che osserva e aspetta.

La seconda stagione di Twin Peaks ha mostrato quanto fosse difficile contenere la visione di Lynch all’interno di un formato televisivo tradizionale. Quando Lynch tornò a dirigere il film Twin Peaks: Fire Walk with Me, non cercò di dare risposte, ma di approfondire il mistero. Il film è un grido di dolore, un’immersione nella sofferenza di Laura Palmer che lascia lo spettatore svuotato e affascinato. Con Twin Peaks: The Return nel 2017, Lynch ha abbandonato ogni pretesa di linearità narrativa. La serie è un’opera monumentale che sfida lo spettatore a mettere in discussione ogni certezza: chi è davvero Dale Cooper? È possibile sfuggire al passato? La risposta, come sempre nel mondo di Lynch, è avvolta in un velo di ambiguità e suggestione.

Non si può parlare di Lynch senza menzionare il suono. Nei suoi film, il suono non accompagna le immagini, ma le plasma. In Mulholland Drive, ogni nota e ogni silenzio diventano parte della narrazione: il respiro del sogno si intreccia al ritmo di una Los Angeles che non è mai reale, ma sempre profondamente vera. Quel mondo di desideri infranti e identità spezzate è il culmine della poetica lynchiana: la frammentazione del sé come condizione universale.

Lynch era anche un artista visivo. Le sue tele, dense di strati e di materia, ricordano i suoi film per il modo in cui evocano emozioni oscure. E poi c’è la fotografia: luoghi abbandonati, fabbriche in rovina, che parlano di un mondo che sta svanendo, ma che conserva ancora una memoria, un’eco.

E se pensavate di poter definire Lynch unicamente come cineasta, vi avrebbe smentito con la musica. I suoi album, come Crazy Clown Time, sono incursioni sonore in territori dove l’elettronica si mescola all’inquietudine. Non è un caso che il suo brano Good Day Today suoni come una richiesta di tregua: una pausa dal caos interiore che permea ogni sua creazione.

Il suo lascito non si misura solo nei premi, ma nell’influenza profonda che ha esercitato. Registi come Denis Villeneuve e Guillermo del Toro hanno dichiarato apertamente il loro debito nei confronti di Lynch, mentre Nicolas Winding Refn e Ari Aster sembrano dialogare con la sua eredità in ogni fotogramma.

David Lynch non ci ha lasciato solo opere: ci ha lasciato uno sguardo. Ci ha insegnato che la realtà non è mai ciò che sembra, che ogni superficie nasconde un abisso e che, nel caos, si può trovare una bellezza oscura e indescrivibile. Ora, il suo nome diventa parte di quel mistero che ha passato la vita a evocare: un corridoio buio, una luce tremolante, un sogno che non finisce mai.